La mostra ideata e curata da Maria Cristina Bandera, per estensione e qualità delle opere è tra le più importanti e complete retrospettive sul pittore bolognese realizzate negli ultimi decenni, in continuità con il consolidato apprezzamento della sua opera in prestigiose sedi internazionali, dal Metropolitan Museum di New York (2008), al Pushkin di Mosca (2017), al Guggenheim di Bilbao (2019).
L’esposizione si apre con il 1913 e i capolavori d’avanguardia, una personale assimilazione della nuova spazialità cubista lungo la traiettoria Giotto-Cézanne e si conclude nel 1963, con una pittura rarefatta e portata all’estremo della verosimiglianza formale, sintesi di uno scavo cinquantennale nella realtà secondo il celebre postulato morandiano: “ritengo che non vi sia nulla di più surreale, nulla di più astratto del reale”. L’intera esperienza morandiana si muove tra questi due poli: un confronto precoce con le novità artistiche internazionali – di lui si può parlare di operosa solitudine ma non di isolamento – e la formulazione di un linguaggio capace ancora oggi di tradurre le inquietudini della modernità.
Tra cézannismo, cubismo e futurismo
(1913-1918, sezioni 1-3)
Un gruppo straordinario di sette opere antecedenti la stagione metafisica, quella più nota – ne dipinse soltanto trentaquattro, tra quelle giovanili non autodistrutte – apre le prime due sale, incentrate sul contatto di Morandi con le avanguardie. Un contatto tra i più precoci e attenti nell’arte italiana del Novecento, benché sia noto che il pittore non sia mai stato a Parigi. Sin dal 1911, con l’ausilio critico e fotografico di libri e riviste, recepisce in autonomia il primo cubismo analitico di Picasso e Braque e la lezione strutturale plastica di Cézanne, ammirato dal vero la prima volta nel 1914 e soprattutto nel 1920. Già nel 1910 e 1911 aveva potuto vedere opere di Renoir e Monet.
Queste sale introducono i temi centrali della sua pittura. L’Autoritratto, 1914, il primo dei sette da lui dipinti e soltanto di recente esibito al pubblico, assimila gli slittamenti prospettici e la radicale geometrizzazione del primo cubismo di Picasso. Riscopre invece una volontà plastica la potente pennellata obliqua dei Fiori del Mart di Rovereto e dello straordinario Paesaggio innevato di Grizzana, entrambi del 1913. Il primo appartenente alla breve e autonoma esperienza futurista di Morandi, nel biennio 1912-1914, le cui corolle irrompono verso l’osservatore accennando a un movimento; il secondo cézanniano per la severità della struttura compositiva estranea a concessioni descrittive e panoramiche.
Simultaneamente, Morandi compie verifiche culturali cruciali sull’arte antica tra Firenze e Roma, da Giotto a Piero della Francesca, pervenendo a esiti di astrazione assoluta nella sintesi bidimensionale e bicroma della straordinaria Natura morta con gli oggetti a tortiglione del 1916, già collezione Della Ragione e poi Frua De Angeli, primo capolavoro giovanile. All’antico e alle Baigneuses di Cézanne, 1885-1887, si rifà la sintesi arcaista delle longilinee Bagnanti qui presenti in due acquerelli conclusivi di una serie di sei dipinti, un unicum nell’opera morandiana. D’ora in avanti Morandi preferirà non trattare più la figura umana per la difficoltà a spogliarla di connotazioni.
Con questi spunti giovanili d’avanguardia Morandi definisce una visione antinaturalistica della realtà toccando i vertici di una concezione spaziale unitaria come nessuno in quegli anni era mai riuscito. Il motivo, secondo lo spirito di geometria cézanniano – ridurre la natura secondo la sfera, il cono, il cilindro -, è estratto dalla realtà come forma indipendente e parallela alla natura. E lo spazio acquista la stessa fisica concretezza del soggetto.
Il clima della metafisica
(1918-1919, sezione 4)
Si apre quindi la stagione metafisica di Morandi in una delle sale più suggestive della mostra, con tre capolavori della Pinacoteca di Brera (già collezione Jesi), del Museo del Novecento di Milano (già collezione Jucker) e della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo. Il suo personale modo di intendere la metafisica – sette dipinti tra il 1918 e il 1919 –, contrariamente alle implicazioni letterarie o psicologiche di De Chirico e Carrà, è incentrato sulla sintassi spaziale e la ricerca della forma. Oggetti enigmatici e elementari – manichini, squadre, solidi geometrici -, depurati di ogni imprevista relazione o accidentalità, sono severamente organizzati nello spazio di misteriose “camere incantate” dalla luce cristallizzata. Essi sono pretesti per arrivare all’ossatura delle cose, la loro pura geometria, costruita da una pittura tirata, quasi senza peso, e da colori severi, l’ocra, il bianco e il nero.
Con le opere metafisiche Morandi ottiene il Gran Premio per la pittura alla Biennale di Venezia del 1948. L’anno dopo, un dipinto decisivo del 1916 entra nel Museum of Modern art di New York.
Il ritorno al reale
(1919-1920, sezioni 5-6)
Già nella seconda metà del 1919 la tensione metafisica si allenta: in sintonia con il “ritorno all’ordine”, anche Morandi ritorna alla realtà e alla tradizione accostandosi al gruppo “Valori Plastici”. Segna questo passaggio una sequenza straordinaria di opere del 1919 e 1920. Gli oggetti, tra i più comuni e desunti dalla quotidianità, ormai spogliati di ogni ambiguità o magia, lasciano le atmosfere rarefatte della metafisica per riacquistare una verosimiglianza prospettica e plastica. La luce si fa reale e ne sottolinea la presenza e il peso.
La sequenza rivela le molteplici direzioni in cui si muove il pittore: la suggestione per Caravaggio e il primo Seicento romano in due nature morte dalla materia inspessita e cupa, quasi notturne, ora nella raccolta dell’Eni e nel Museo Morandi di Bologna, e, all’opposto, una ferma metrica schiarita da delicate cromie che ricordano Piero della Francesca in due testi fondamentali, la Natura morta di Brera sul piano circolare, già in collezione Vitali, e i Fiori di collezione privata, dove un vasetto bianco di rose si stacca dal fondo dorato bipartito come una pala del Quattrocento. Traguardi di purezza formale su cui Morandi potrà costruire la sua pittura tonale.
La sperimentazione degli anni ’20
(1921-1929, sezioni 7-10)
L’importante sperimentazione degli anni ’20 prosegue lungo tre sale, tra le più significative, in cui Morandi pone sulla scacchiera tutti i temi della sua pittura – paesaggio, natura morta, fiori – pervenendo a una gamma straordinaria di soluzioni inedite su cui lavorerà tutta una vita. Ora i suoi punti di riferimento sono il Rembrandt incisore e Chardin, maestri il primo del tonalismo nel bianco e nero e il secondo della natura morta di oggetti quotidiani.
Si va da una spazialità ottenuta con mezzi tonali in complessi incastri geometrici – il Paesaggio della Camera dei Deputati, la Natura morta con il panno giallo della Fondazione Longhi – a una riscoperta di nuovi spessori materici che preludono alla potente pittura plastica del decennio successivo – le studiate Nature morte a più oggetti del Museo del Novecento di Firenze e del Mart di Rovereto. Morandi guarda potentemente al reale e ne trae immagini in cui prevale da una parte il rigore geometrico, la monumentalità e la metrica tra le cose, dall’altra un’istintività pittorica più libera e immediata il cui modellato sembra trasalire la forma geometrica, come nei Fiori dei Musei Vaticani.
L’incisione e la conquista tonale
(1928-1929, sezione 11)
Negli anni ‘20 il dialogo tra pittura e acquaforte – la sua prima incisione è del 1912 – s’intreccia in un rapporto sempre più stringente di interdipendenza e non sussidiarietà. Emblematica del suo modus operandi in serie è l’acquaforte Grande natura morta con la lampada a destra, 1928, un prodigio di abilità tecnica di cui è presente sia la lastra in rame sia gli otto stati, cioè otto versioni con modifiche – le prime tre stampate in esemplare unico -, pervenuti col lascito Vitali alla Raccolta Bertarelli di Milano.
Ad essi, a chiusura del lungo percorso degli anni ’20, è accostata la Natura morta del Mart di Rovereto, 1929, che riprende il medesimo tema incentrato su una sequenza di oggetti dal forte slancio verticale, colti da una prospettiva aerea come uno skyline di grattacieli svettanti.
La tecnica dell’acquaforte, praticata con intensità in questi anni di definizione del suo linguaggio artistico, perverrà a risultati tra i più elevati del Novecento italiano. La sperimentazione nelle due sole cromie del bianco e nero – il “bianco assoluto”, come lo chiamava, e il fitto reticolo segnico graduato con il bulino in infinite tonalità di grigio -, serve a Morandi per testare anche in pittura la riduzione del colore a due tonalità fondamentali: in questi anni ’20 si verifica una progressiva conquista della pittura tonale, che non ha eguali, in Italia e Europa, in quel tempo.
Nel 1930 gli è assegnata per chiara fama la cattedra di tecnica dell’incisione all’Accademia di Bologna, incarico che manterrà fino al 1956. Nel 1953 ottiene il Gran Premio per l’Incisione alla II Biennale del Museo d’Arte Moderna di San Paolo del Brasile.
Gli anni cruciali
(anni ’30, sezione 12)
Gli anni ’30 si aprono con una significativa sala dedicata al paesaggio. Il tema è ricorrente sin dagli esordi – rappresenterà poco meno di un quinto dell’intero corpus – e si alterna alla natura morta costituendone una sorta di contraltare, come per testare sul vero ciò che il pittore ricreava nella sua stanza. “Lavoro costantemente dal vero”, dichiarava in una concisa intervista (Morandi 1929-1930), precisando in seguito: “È vero, ho fatto più nature morte che paesaggi – e dire che i paesaggi li amavo di più.”
Nella sequenza di opere qui esposte – i motivi prescelti sono Grizzana e Roffeno, nell’Appennino bolognese, e il cortile di via Fondazza ripreso dalla finestra del suo studio – si intrecciano tutti gli apporti culturali e le invenzioni formali degli anni precedenti. Morandi ora gioca da regista restringendo o allontanando la presa visuale sia tramite un marcato zoom ottico che abolisce il cielo e priva il soggetto di una messa a fuoco – il pittore si serviva di un cannocchiale o di un personale obiettivo, una “finestrina” ricavata in un pezzo di cartone –, sia tramite una luce diafana, tra Seurat e Piero della Francesca, che appiattisce le forme in tarsie di incastri geometrici.
È ora affidato al colore, spinto fino all’inverosimile di accensioni ipercromatiche – definito da Brandi “colore di posizione” -, il compito di restituire una coerenza spaziale, di ristabilire la relazione prospettica tra le cose.
L’effetto, come nella serie di Nature morte qui significativamente accostate, tutte di prestigiose provenienze – Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, Fondazione Longhi di Firenze, Fondazione Magnani-Rocca, FAI di Milano, Gam di Torino -, è di uno straniamento percettivo: il soggetto è al tempo stesso lontano o vicino, definito o velato, i vuoti o le ombre hanno la stessa consistenza degli oggetti, la stesura pittorica è trasparente e sottile o carica e improvvisa, in una tensione dinamica tra realtà e astrazione.
Questo decennio di coraggiosa sperimentazione culmina nel 1939 con la sala personale alla Quadriennale romana.
Gli anni ’40
(1940-1949, sezioni 13-20)
Si entra, quindi, nella grande sequenza degli anni ’40. Cinque sezioni centrali con più di trenta opere documentano una svolta nel percorso morandiano, un nuovo impulso di semplificazione che collega questa stagione a quella successiva, la conclusiva.
La regia compositiva, come nel decennio precedente, si arricchisce di inedite invenzioni formali: i consueti oggetti – prescelti sin dagli anni ’20 -, di volta in volta ridotti o accresciuti di numero, si dispongono per similitudine di altezze o di forme in un impianto centrale o allungato – come nella tela ipertonalizzata della Fondazione Magnani-Rocca, 1942, o in quella dai colori lattei dell’Eni, 1941, si allineano in profondità (collezione Telecom, 1942), lungo diagonali (Museo del Novecento di Milano, 1943) o ad angolo (Museo Morandi, 1948), con variazioni di luce, frontale o fortemente laterale, e di spazio, dove anche il fondo e il bordo del tavolo agiscono con lo stesso rilievo plastico degli oggetti.
Il colore si acquieta su timbriche ridottissime, dagli ocra ai bruni, con rari innesti comunque trattenuti nel calibro del tono. Gli impasti sono soffici e come polverizzati in un diaframma di luce trasparente e corrosiva. Mai come ora Morandi si dimostra maestro della pittura tonale.
Completano la serie i Paesaggi degli anni della guerra – più di ottanta opere, tra i suoi più alti traguardi –, con alcuni vertici assoluti di sintesi di geometria e luce che rievocano l’esperienza metafisica (Collezione Catanese, 1941; Collezione Zanichelli, 1942), e alcune nature morte di Conchiglie, tra cui la tela Telecom, 1940, tema rembrandtiano dai connotati enigmatici e misteriosi riscoperto in questi anni drammatici.
Gli anni ’50
(1950-1959, sezioni 21-28)
Gli anni ’50 avanzano lungo un cammino di progressiva semplificazione. Trenta opere magistrali, tra dipinti e acquerelli, disposte in nove sezioni, dimostrano come la ricerca matura di Morandi è risolta per sottigliezze pittoriche, di ductus e di materia che intervengono con lo stesso rilievo plastico della composizione e del colore. Ora, la volontà costruttiva, il controllo tonale e l’espressione pittorica si fondono in una sorprendente sintesi formale.
Gli accostamenti del percorso espositivo aiutano a comprendere l’iter creativo morandiano, fatto per sequenze e per minime varianti. Protagonisti di questa stagione sono il panno giallo accartocciato di memoria cézanniana e ancora prima seicentesca in un accostamento straordinario di tre tele del 1952 (Museo di Siegen, Museo Morandi e Gam di Milano), la famosa bottiglia a tortiglioni dall’impianto classico (Fondazione Longhi, 1953; Pinacoteca Nazionale di Siena, 1957), l’imbuto rovesciato posto su un cilindro, elemento tra i più ricorrenti, e le celebri bottiglie dal collo lungo, quelle del vino di Borgogna, in due sequenze del 1951-1952 (Museo Morandi, Museo d’Arte Contemporanea di Rivoli e Museo di Siegen) e del 1957 (Fondazione Carraro di Venezia e Museo di Vevey) dove la luce o è incorporea, trattenuta e quasi assorbita da superfici che sembrano di gesso, o è riflessa in lunghe luminescenze liquide.
La struttura compositiva, sempre più essenziale, è percorsa da impercettibili scostamenti geometrici e prospettici che rimandano alle astrazioni giovanili. Gli oggetti sono allo stesso tempo riconoscibili e intangibili, la luce corporea e mentale, lo spazio amplificato o prepotentemente ribaltato verso l’osservatore. Anche la pittura, in un ductus mobile e sicuro, smuove lo spazio in termini plastici e prospettici: brevi e decisi spostamenti di materia segnano il bordo del tavolo, un’ombra o le pieghe di un panno. Le tonalità, trattenute in tenui cromie, ricordano ancora una volta l’affresco tre e quattrocentesco o, ancora più sorprendentemente, gli accordi delicati e consonanti di Vermeer.
Nel 1957 ottiene il Gran Premio per la Pittura alla IV Biennale Internazionale di San Paolo del Brasile.
Gli acquerelli
(1956-1963, sezione 29)
Un’intera sala è dedicata alla grande stagione dell’acquerello – una sequenza di nove opere – praticata con intesità a partire dal 1956, concentrando in soli otto anni più di duecentocinquanta fogli. Con l’estrema economia del mezzo pittorico, per la sua materia liquida e sgranata, Morandi perviene a una visione sintetica sempre più intangibile: lo spazio sembra smaterializzarsi e l’immagine sembra o gravitare nel vuoto, corrosa da una luce incorporea, il bianco del foglio, o sopravvivere in uno straniante controluce in negativo.
Gli anni conclusivi
(1960-1963, sezioni 30-34)
Negli anni ‘60, l’ultima stagione di Morandi, l’instancabile variare sui motivi mette in atto intuizioni sempre più complesse, in una stilizzazione formale ai limiti o dell’astrazione o della costruzione architettonica. Quindici opere significative, disposte nelle ultime due sale, chiudono idealmente un percorso durato cinquant’anni. In questa ultima stagione è toccata l’essenza, la sostanza di una ricerca durata tutta una vita.
L’immagine, costruita più con l’ombra che con la luce, perde nitidezza e verosimiglianza e il colore si intorpidisce. Le forme sono sospese tra un tempo presente e un tempo indefinito, tra uno spazio reale e uno spazio mentale. Disvelano l’illusione della realtà, secondo il celebre assioma morandiano: “ritengo che non vi sia nulla di più surreale, nulla di più astratto del reale”. Del reale non resta che l’essenza, per sottrazione: “Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose” (Giorgio Morandi, 1960). In due straordinarie tele conclusive del 1963, qui raffrontate, le cubature svuotate delle
Case della Sete di Grizzana si confondono con le superfici piatte e squadrate delle bottiglie persiane. Il motivo scompare. È in questo progressivo dissolvimento dell’oggetto, senza mai perdere l’oggetto, che Morandi raggiunge il punto più avanzato nella sua opera.
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